Il quadro elettrico europeo

La crisi, le rinnovabili e lo shale gas. Tre fenomeni si sono abbattuti sul contesto elettrico europeo, oggi più fosco e indecifrabile che mai.

Iniziamo con ordine : la crisi. Nessun economista l’aveva vista arrivare. Figuriamoci se era stata prevista dagli operatori elettrici del vecchio continente. Eppure gli investimenti nel settore sono quanto di più a lungo termine possa esistere. Piani di ammortamento decennali, idem per il ciclo di vita degli impianti e per un qualsiasi business plan che si rispetti : « a lungo termine » il concetto chiave, « pianificare » il verbo strategico. Su cosa bisogna avere le idee più chiare possibili ? sulla domanda, ovviamente ! Non esiste infatti nessun settore industriale con la peculiarità dell’energia elettrica : impossibile immagazzinarla, non sappiamo ancora stoccarla sul serio. L’offerta dev’essere quindi costantemente uguale alla domanda. Qualcuno ha già mostrato il paradosso del settore elettrico « se la domanda supera l’offerta, quest’ultima scompare ». Prevedere la domanda é quindi fondamentale per qualsiasi strategia. Poi pero’ arriva la crisi, la domanda crolla e il risultato é un’overcapacity generalizzata. Impianti che funzionano troppo poco e fattori di carico troppo bassi per ripagare gli investimenti fatti. In poche parole, se la centrale é spenta la più parte del tempo, e il prezzo sul mercato é troppo basso, diventa complicato ammortizzare il capitale investito. Questo é ancora più vero in Italia dove, dopo l’apertura alla concorrenza e lo spezzettamento di Enel, abbiamo assistito a grandi investimenti per migliorare efficacia degli impianti e per costruirne di nuovi. Effetto che in un primo tempo poteva sembrare salutare, un nuovo parco centrali, modernissimo e all’avanguardia, ma che si é rivelato una grande spada di damocle a causa di una disproporzionata capacità produttiva rispetto alla domanda del paese. Chi vuole farsi due risate dia un’occhiata ai dati di Terna. Pensate che addirittura qualcuno voleva costruire 4 nuovi EPR nucleari! Tutti hanno investito in nuove centrali a cico combinato a gas, quanto di meglio possa esistere per il settore del termoelettrico. “Il gas naturale é il futurodella generazione elettrica”, si diceva. Eppure le previsioni non si sono, per ora, avverate esattamente. Una CCGT per essere redditizia e competitiva deve funzionare per almeno 5000 ore sulle 8760 annuali e ad oggi in molti stanno sotto i 3000. Di chi é allora la responsabilità? Dei volumi richiesti e anche dei prezzi del mercato. Quindi anche di rinnovabili e del gas non convenzionale degli Stati Uniti. Passiamo quindi al secondo fenomeno evidenziatosi negli ultimi anni: le rinnovabili. Abbiamo accolto con meraviglia gli ultimi dati sulla contribuzione di eolico e solare, in Europa e in Italia (qui i dati GSE), ci siamo detti più volte che sono già stati rispettati gli obiettivi del 20-20-20 ma anche che si é drogato un mercato e che é avvenuto un trasferimento di ricchezze  dai consumatori europei ai produttori cinesi, soprattutto per il fotovoltaico. Ma qual é l’impatto di queste energie, ricordiamolo intermittenti e non programmabili, sul mercato? Il mercato elettrico si costruisce giorno per giorno con un merit order, basato sul costo marginale di produzione delle centrali per un’allocazione efficiente delle risorse. Le rinnovabili hanno, giustamente, priorità di immissione in rete, garantita dalla legge, ma anche dal fatto che il loro costo marginale di produzione é zero. Se c’é vento le pale girano, se c’é sole i pannelli producono e quell’energia viene messa in rete. Nella costruzione dell’ offerta sul mercato, basato sull’ordine di merito, la prima fetta va dunque assegnata a queste fonti non programmabili. Un 5-10-15% della base elettrica é quindi fornita da un’energia, giustamente ma sproporzionatamente, sovvenzionata. Il loro costo, il loro “merito” non conta, la loro produzione é immessa in rete sempre e comunque. Per tutti gli altri, termoelettrici soprattutto, questo significa ch la curva si sposta e chi prima veniva chiamato a produrre, adesso probabilmente rimane fuori. É questo il caso dei produttori che utilizzano il gas naturale per fornire elettricità sulla rete. Le turbine a gas (le CCGT) sono il mezzo ad oggi più costoso in Europa. Il prezzo del mercato é inferiore al loro costo marginale,quindi o restano spente, o molto semplicemente come spesso avviene i produttori perdono soldi per produrre elettricità. Questo perché in Europa il gas é troppo costoso. Perché é importato e venduto su contratti a lungo termine indicizzati al petrolio per ragioni, diciamo cosi, storiche. Il petrolio é caro, il gas lo segue. La stessa cosa non é vera pero’ negli Stati Uniti. Veniamo cosi’ al terzo fenomeno: il gas di scisto. Nel 2008 le nuove tecniche di fratturazione idraulica, permettono lo sfruttamento e l’estrazione di un gas non convenzionale “intrappolato” nella roccia. Foraggi orizzontali e, soprattutto, iniezioni ad alta pressione di grandi quantità d’acqua, combinata con simpatici elementi chimici, hanno permesso di estrarre enormi quantità di gas naturale e, spesso, anche di nuovo petrolio. In Europa é per adesso vietat fare ricorso a questa tecnica di estrazione, giudicata pericolosa per l’ambiente. In America si é proprietari del sottosuolo e si fora. Quale l’effetto: le riserve raddoppiano, l’offerta aumenta a dismisura, il prezzo crolla. Niente correlazione al petrolio in contratti a lungo termine, in America il gas é venduto su hub con grandi liquidità (l’Henry Hub in Louisiana é il mercato gasiero con più transazioni). Il gas costa quindi pochissimo e, di conseguenza, produrre elettricità con il gas costa quindi molto meno che da noi. Cosa succede allora? Che se prima del 2008 negli States il 50% circa dell’energia elettrica era prodotto dalle centrali a carbone, oggi il gas s’è ripreso il suo posto, mandando fuori mercato il carbone. Il prezzo del carbone americano crolla, e dalla costa del nord est americano dove arriva? In Europa ovviamente! I tedeschi vogliono uscire dal nucleare, il prezzo della CO2 é, purtroppo, crollato, e allora si costruiscono nuove centrali a carbone. Niente più gas, niente energia a basso tenore di CO2, oggi in Europa il prezzo dell’elettricità lo fa il carbone. Il Financial Times ha spiegato qualche giorno fa questo fenomeno.

Questo é quindi lo scenario, fosco, dell’Europa elettrica. Poca domanda, prezzi bassi e carbone dominante. Quale transizione energetica?Chi deve tirare fuori i soldi per investire sulle reti di trasporto? Se qualcuno ha la risposta si faccia avanti.

Riflessioni aperte sul Movimento 5 Stelle

Le elezioni del 24-25 febbraio hanno un vincente, il Movimento 5 stelle. Ogni commentatore ha cercato di tracciare l’identikit dell’elettore grillino, spiegarne le cause, dirci i perché e i percome, ma nessuno ha ancora capito qual è la missione di quest’esercito di onorevoli. “Loro non mangeranno tutto e controlleranno” si diceva, pensando magari che si sarebbe trattato di un “manipolo” di ragazzi, ininfluenti per la battaglia politica e in numero sufficiente per sorvegliare il lavoro delle commissioni dall’alto della loro, indubbia, onestà. Ma adesso le cose non stanno più così. Il famoso popolo, incazzato, deluso, amareggiato, che magari non vuole più neanche quel briciolo di stato che c’è rimasto, ha sparigliato le carte. Primo partito. Le camere aprono le porte ad un ammasso di ragazzi sconosciuti (c’è chi ha preso 1 voto alle municipali di Bologna e chi non ha mai fatto parte di un’assemblea di condominio), inesperti che non sanno come funziona il parlamento e, probabilmente/sicuramente, incompetenti. Tralasciando quelli che non sapevano come funziona il meccanismo della fiducia o quanti siano i senatori – quelli ladri che bisogna dimezzare – sta di fatto che non si sa cosa vuole fare quest’esercito di onorevoli “cittadini”.

Andava fatta una premessa: chi scrive è un appassionato di democrazia, rappresentativa, il miglior strumento di governo di una società che delega a un gruppo di rappresentanti aderenti ad un partito, le famose élite, le decisioni da prendere. Confidando così che ogni eletto si batta per far andare le cose nella direzione sperata dall’elettore. Lo stesso sistema che ha dato ai candidati del M5S di essere eletti e di rappresentare la nazione e chi li ha votati. E come tale le elezioni vanno rispettate.

Adesso però viene il punto. Una democrazia senza  anticorpi a derive autoritarie e populiste, come quella italiana (leggasi lo score B.-Grillo), dove può andare se viene meno il rapporto sano, democratico, tra popolo e rappresentanti con visioni diverse, tra progressisti e conservatori? Cosa può produrre un parlamento guidato dai famosi cittadini e non più da quelle élite che conoscono cosa vuol dire la politica estera, la politica monetaria, la politica del lavoro, la politica energetica, la politica fiscale e le battaglie per i diritti civili etcetc. Cosa propongono i cittadini sul ruolo dell’Europa, sui contratti di lavoro, sulle liberalizzazioni dell’economia, sul ruolo dello Stato, sulla scuola? Dove ci vogliono portare quei cittadini che stanno in parlamento solo perché semplicemente diversi dalle classi politiche attuali, con l’etichetta di “onesto doc” dell’eletto del popolo.

Dietro tutta questa demagogia, perché non sta in piedi il concetto secondo cui quelli del M5S faranno le cose, non di destra o di sinistra, ma “giuste” – giuste per chi, secondo cosa- io chiedo dunque agli elettori del gruppo di Grillo: cosa volete fare?

Perché un movimento/partito che non ha organi in cui si discute, che non ha assemblee, ma solo un proprietario del logo depositario della verità, di cui non si conosce la direzione ma che subisce le emissioni e le innumerevoli cazzate, per carità rivoluzionarie-moderne-senza soldi pubblici, del leader Grillo, cosa farà dopo “aver aperto il parlamento come una scatola di tonno”? Dov’è la rivoluzione? In cosa consiste il famoso cambiamento?

Ditemelo voi ché io, credendo ancora alla sinistra e alla destra, non l’ho ancora capito.

qualche spunto al dibattito Rinnovabili – Incentivi

Filippo Zuliani ha pubblicato su IlPost uno di quegli articoli, pieni dati, che ti danno voglia di leggere il “contenitore” creato da L. Sofri. Cosa ci racconta l’articolo?che le rinnovabili (Zuliani parla quasi esclusivamente di fotovoltaico) non sono ancora competitive, che gli investimenti sono crollati e che altro non è che il risultato di un mercato drogato da incentivi fatti male. Tutto vero.
Vorrei allora aggiungere qualcosa. Una, gli incentivi sono stati fatti male praticamente dappertutto. Il feed in tariff, ha/aveva un grande vantaggio e una grande intuizione. L’incentivo in “conto energia”, e non in conto capitale, permette di dilatare il contributo durante un lungo periodo di attività dell’impianto, privilegiandone quindi la produzione di energia piuttosto che la mera installazione. Io Stato, pago così in 20 anni e soprattutto dò sicurezza all’investimento. Ma allora perché erano mal concepiti?Perchè un po’ dappertutto è mancato l’aggancio a qualsiasi miglioramento in termini di tecnologia e in termini di prezzo. Nessun incitamento a presentare un prodotto migliore ma semplicemente un incentivo a conservare la rendita di posizione di certi investitori. Ci guadagnavano tutti, tranne il consumatore che vedeva lievitare la sua componente A3 nella bolletta. Facciamo un esempio: nel 2008 installare dei pannelli fotovoltaici costa 10 sesterzi, l’imprenditore grazie al conto energia può creare un suo business plan con il quale ritenere che l’investimento sia redditizio per cominciare a produrre elettricità. A fine 2010 il “mercato del pannello” ci dice che i costi sono crollati, gli stessi pannelli fotovoltaici oggi costano solo 4 sesterzi, eppure l’incentivo (sull’identico kWh) è rimasto esattamente lo stesso! Ciò significa che tutti gli operatori della catena di valore, soprattutto gli “installatori”, quelli che acquistano all’ingrosso i moduli fotovoltaici e li vanno a installare sui tetti e nei campi, possono gonfiare i propri ricavi. Se infatti l’imprenditore riteneva già redditizio l’investimento con i pannelli a 10, perché proporgli il prezzo attuale, ovvero 4?gli verrà proposto un impianto da 8 sesterzi, lui sarà già contento, e nel frattempo lungo la filiera ci sono altri 4 sesterzi da “spartire”. Queste cifre ovviamente vanno poi rapportati con la taglia dell’impianto, dal piccolo impianto di 3 kW fino al campo di 3 MW. Ed è così che lo Stato che voleva fare l’ecolò garantiva un ritorno del capitale, in termini di interesse, del 15-20% annuo. Per 20 anni! Per conoscere il benefattore bastava citofonare al consumatore italiano/tedesco/francese/spagnolo.
Nell’articolo di Zuliani manca però anche qualcosa. L’equazione rinnovabili= fotovoltaico, quando l’eolico è ormai in termini completi di grid parity. E che il fotovoltaico in certe zone geografiche lo è e soprattutto lo sarà. Lo sarà perché, ricordiamolo, il concetto di grid parity (costi di produzione uguali tra le fonti rinnovabili e le fonti tradizionali) è relativo. Dipende infatti dal prezzo di petrolio/gas/carbone, e in alcuni casi del nucleare. E, fatta questa premessa, non esiste alcuna previsione che ci dica che il kWh tra 10 anni sia meno caro di quello attuale. Eppure il prezzo del sole o del vento non cambieranno negli anni, una volta realizzato l’impianto questo produce per 20-30 anni. Sappiamo che oggi il costo di un MWh eolico può essere stimato tra i 70-80 euro/MWh, e sarà pressappoco lo stesso tra 5 anni. Tra 5 anni però il prezzo del barile potrebbe scavallare i 200 dollari, avendo così le sue ripercussioni sul gas e quindi sulla generazione di energia elettrica fino a un MWh stabile attorno ai 100 euro. Ed ecco che, finalmente, le energie rinnovabili potranno vantarsi dell’aggettivo magico: competitive.

Cosa resta del primo turno delle primarie

3 milioni 100 mila votanti. Conti e paragoni con le vecchie edizioni delle primarie ci interessano poco, è stato un bellissimo segnale di partecipazione, tenuto conto dei tempi che corrono. Chi vince? vince quell’Italia che ha voglia di partecipare, di interrogarsi, di contare. Le primarie sono un fatto, a thing, ineluttabile della politica contemporanea. Chi perde? sono in pochi e quelli che ai piani alti del PD hanno più volte spinto per non farle, per non dare questa possibilità ai cittadini, perchè in fondo è meglio prendere le decisioni in un sala del partito, perchè le alleanze le decidono i dirigenti etcetc. Fallimento su tutta la linea. Va da sé che le notizie riguardanti le decisioni riguardanti l’accesso al voto per domenica prossima rientrano nel filone di quest’idea perdente. Spero quindi che da qui al 2 dicembre possano essere cambiate le regole che limitano in modo cervellotico la possibilità di votare al ballottaggio per chi non si è recato ai seggi domenica scorsa.

Fatta quest’introduzione chi ne esce bene è sicuramente Pierluigi Bersani, ha messo da parte lo statuto e si è confrontato con delle primarie vere. Poteva essere rischioso per lui, ma si è difeso bene e ha messo davanti a tutto la sua competenza, la sua “semplicità” e il suo essere usato sicuro. Spero che possa aver capito con quest’esperienza che sì, il partito, la segreteria, il partito etc., ma la personalizzazione della politica è una percorso ineluttabile nella politica moderna, che non va demonizzato ma semplicemente usato correttamente. Va detto che aveva dalla sua tutto l’establishment del partito e che la demografia ci dice tante cose. L’Italia resta un paese vecchio, demograficamente parlando,  e fondamentalmente conservatore, politicamente parlando. Con queste condizioni strutturali la scommessa di Matteo Renzi, di parlare di futuro, di voltare pagina per andare in una direzione poco conosciuta, era difficile. Il sindaco di Firenze prende comunque una barca di voti, tra cui il mio, vince bene in casa sua (non dev’essere visto poi così male a Firenze) e fa dei buoni risultati in posti dove notoriamente conta più il voto di opinione. Ha condotto una campagna spumeggiante, vissuta all’attacco come una squadra di Zeman. Resta qualche rimpianto per una candidatura che è apparsa spesso troppo in solitaria, senza troppi compromessi, ma gli va dato il grandissimo merito di aver messo al centro temi fondamentali e di, non dimentichiamolo, aver preso il 36% con il 95% dei dirigenti contro. Resta il ballottaggio ma la scalata appare decisamente ardua.

Ciò che mi auguro è che, comunque vada, non si metta da parte quel patrimonio fondamentale per il PD, che Renzi e i suoi sostenitori rappresentano. Per farlo occorrerà che Bersani, nel caso in cui risultasse vincitore, da uomo intelligente qual è capisca che le istanze che il sindaco di Firenze ha sollevato sono questioni vere, che non vanno dimenticate, ma ascoltate. Per un Italia migliore.

Per un’Europa dell’energia: se Hollande riprende Delors

La notizia fresca secondo cui il governo francese, coadiuvato da grandi personalità del settore come Anne Lauvergeon (ex patron di Areva), starebbe lavorando al rilancio di una comunità europea dell’energia può farci solo ben sperare. Il settore energetico, crocevia fondamentale di qualsiasi politica di sviluppo, è stato uno dei settori industriali maggiormente stravolti a livello europeo, grazie all’azione intrapresa caparbiamente dalla Commissione europea. Seppure quello strano animale che oggi chiamiamo Unione Europea abbia cominciato il suo cammino mettendo alla base la gestione comune delle risorse energetiche (Ceca ed Euratom), la politica energetica non è mai stata inserita nei trattati costitutivi. Il tema “energia” compare infatti per la prima volta solo a partire del trattato di Lisbona. Prima di allora e, forse fino ad adesso, gli stati nazionali non hanno mai voluto rinunciare alla loro sovranità sul tema. Eppure difficilmente troverete qualcuno contrario all’idea per cui, per avere un’energia più efficiente, più sicura, più sostenibile e possibilmente meno cara, l’unica soluzione sia un vero mercato integrato, con reti transfrontaliere capaci di interconnettere il continente. Un’Europa quindi capace di incentivare e pianificare i giusti investimenti, sulla produzione, sul consumo, e soprattutto sul trasporto. Un impulso chiaro per la realizzazione di reti elettriche capaci di rendere maggiormente efficace lo sfruttamento dell’idroelettrico scandinavo, del nucleare francese e perché no del solare mediterraneo e del vento del mare del nord, e per la costruzione di gasdotti capaci di fornire maggiore flessibilità e minore dipendenza dai fornitori (Russia in testa). Bei propositi, spinti da sempre da quel Jacques Delors, padre di un’idea di euro molto diversa dal “marco” europeo che abbiamo avuto fino ad oggi.

Ma ad oggi questi bei propositi si sono tradotti soprattutto nella grande azione liberalizzatrice, di stampo quasi thacheriano, che ha aperto i mercati europei, con lo scopo di renderli più contendibili, più trasparenti e meno dipendenti dai grandi campioni nazionali (Edf, E-On, Enel, Gdf, Eni etc etc).  Un mercato senza barriere all’ingresso, accessibili a tutti i new comers, per poter garantire ai consumatori/cittadini un’energia meno cara, più efficiente e possibilmente più europea. Tutto questo perché? Perché la sola leva, vera, in mano al legislatore europeo era solo una: la concorrenza.  Dopo 3 pacchetti legislativi però possiamo dirci soddisfatti? Ogni riforma ha bisogno del suo tempo, però sicuramente l’integrazione del continente è ancora lontana, la gestione comunitaria dell’energia idem, per non parlare del prezzo che tutto ha fatto fuorché diminuire. E gli incumbent? Sono sempre lì, e in più hanno allargato il loro spettro di azione, andando loro si al di là delle frontiere nazionali, senza però perdere granché del loro mercato nazionale. Però nel frattempo abbiamo messo su dei sistemi di regolazione e controllo, dalla gestione difficile e costosa per garantire il giusto spazio a sua maestà la concorrenza. Emblematico il caso francese in cui l’energia è sempre stata  un simbolo dello stato e del servizio pubblico e in cui da anni ci si scervella su come favorire l’ingresso di nuovi attori in uno scenario dominato dal nucleare a basso costo. Con che risultato? Che per tenere dentro i nuovi arrivati si è dato di più a chi c’era già (Edf)! Ma allora la concorrenza fa male?! No, assolutamente, ma non può essere il solo driver di una politica. Chè se la concorrenza resta zoppa e forzata non ha senso, ma ha bisogno piuttosto di una politica che dovrebbe trovare il coraggio per pianificare uno sviluppo comune e integrato del mercato.

E allora se Hollande vuole riprendere Delors, noi ce ne rallegriamo. Ma speriamo allo stesso tempo che oltre alle riflessioni e alle tavole rotonde, vengano fuori degli atti politici capaci di creare una vera comunità europea dell’energia. E che magari si colga l’occasione affinché quest’Europa sempre più piccola sia capace di ripartire, insieme, come 60 anni fa.

La sinistra ai tempi della crisi: le presidenziali francesi

Domani circa 40 milioni di elettori francesi si recheranno alle urne per il primo turno dell’elezioni presidenziali. È possibile che dalla tornata elettorale di domani non vengano fuori grandi sorprese e che la partita resterà aperta fino al prossimo 6 maggio, data fissata per il deuxième tour, in cui ad ogni probabilità François Hollande cercherà di prendere il posto di Nicolas Sarkozy all’Eliseo.

Se i sondaggi saranno rispettati, il candidato socialista dovrebbe avere la meglio sull’attuale presidente e riportare la gauche alla guida del paese dopo quasi vent’anni, dopo l’epoca Mitterand. Hollande potrebbe quindi essere il primo leader di sinistra eletto in un grande paese Europeo dopo la crisi.

La campagna presidenziale di questi mesi è stata però ritenuta dai commentatori una delle più “noiose” campagne mai viste, con surreali dibattiti sulla carne halal o sulle novità riguardanti l’ottenimento della patente di guida, piuttosto che nuovi orizzonti politici. L’unica novità significativa di questa campagna è stato il successo riscontrato da Jean Luc Melenchon, candidato del front de gauche (formazione alla sinistra del Ps), accreditato di un ottimo 15% dei sondaggi e che domani potrebbe ritrovarsi addirittura sul “podio”. Consapevole di non avere grandi chance di ritrovarsi presidente il prossimo 6 maggio, Melenchon è stato artefice di una campagna aggressiva con il pugno ben chiuso, e simboli identitari quale una grande manifestazione in piazza della Bastiglia o uno slogan efficace come “prendetevi il potere”. Oltre a un simbolismo coraggioso e, verrebbe da dire, “rivoluzionario” Melenchon ha promesso, in tempi in cui al primo posto dell’agenda di qualsiasi presidente occorrerà mettere la riduzione del deficit, un innalzamento del salario minimo, il blocco dei licenziamenti e una controriforma delle pensioni per riportare l’età pensionabile a 60 anni. Sicuramente non ha mai ascoltato il ministro Fornero. Una sinistra dunque più di lotta che di governo che pone però, almeno a livello elettorale, dei grandi quesiti a quella sinistra che invece vuole realmente governare un grande paese come la Francia. Sebbene tanti possano essere i rimproveri da portare al partito socialista francese, sicuramente non si può dire che la campagna di Hollande non sia stata quanto più realistica possibile. Poche promesse elettorali ma un pragmatismo di sinistra per uscire dalla crisi. Pragmatismo che però non basta ad indicare una nuova via, quanto solo a cercare di correggere qualche squilibrio nei conti pubblici attraverso una nuova redistribuzione del carico fiscale. Ma emerge qui un punto fondamentale nel paese che più di ogni altro in Europa incarna la sacralità del concetto del servizio pubblico. Ovvero, quale leva può azionare una sinistra di governo in un momento storico in cui tutti, ma proprio tutti, dicono che occorre ridurre la spesa  pubblica. In questo quadro economico, quali possono essere le politiche di sinistra? Se per anni la bandiera spesso vincente della socialdemocrazia è stata rappresentata dalla formula “più Stato”, in momenti in cui si potevano redistribuire risorse, quale può essere il giusto equilibrio, quali le nuove frontiere quando invece le casse sono vuote?

La risposta non è facile, ma tutti qui ci auguriamo che Mr. Hollande abbia 5 anni di tempo per poterla fornire.

L’emergenza gas frutto di una politica miope

L’emergenza gas che si profila per la prossima settimana in Italia è dovuta non solo all’ondata di freddo che sta colpendo tutto il continente europeo, ma anche a scelte di politica energetica quanto meno bizzarre.

Come tutti state leggendo sui giornali, nei prossimi giorni si profila l’eventualità per quelle imprese che hanno stipulato dei contratti interrompibili con il proprio fornitore, di non avere più gas nel caso in cui si verifichi la “punta”. Per punta si indica quel momento in cui la rete domanda una quantità di gas che la rete non può più sostenere. In questi giorni vengono infatti prelevati circa 450 milioni di metri cubi di gas e l’offerta, ovvero le immissioni in rete, faticano a reggere questi ritmi. Poiché la rete deve essere, com’è ovvio, costantemente bilanciata (tanto gas esce, tanto ne deve entrare) si rischia per l’appunto che la rete non regga. Durante tutto l’anno le immissioni da gasdotti internazionali e pozzi nazionali di produzione superano di poco i 300milioni mc/giorno e in inverno, quando la domanda è maggiore dell’offerta, questo gap viene colmato dagli stoccaggi, vero “polmone” del settore. Queste cavità nel sottosuolo vengono riempite durante l’estate, quando di gas se ne consuma poco, e vengono svuotati di inverno.  Durante queste settimane però, Gazprom ha consegnato meno gas perché il freddo non è arrivato solo in pianura padana, ma anche in Russia, Ucraina, Polonia, Repubblica Ceca e via dicendo. E quindi i prelievi da quelle arterie piene di gas, sono aumentati. In più il nuovo rigassificatore di Rovigo ha registrato dei problemi e quindi manca all’appello anche un’altra fondamentale risorsa per l’immissione di gas nella rete nazionale.

Ma andiamo con ordine: il gas. L’Italia va a gas. Un quarto circa dell’energia totale consumata nel nostro Paese viene prodotta bruciando questo combustibile. Soprattutto circa il 60% del nostro fabbisogno elettrico viene prodotto da un parco centrali alimentate principalmente dal gas. Senza nucleare e con poco carbone, all’indomani della liberalizzazione del mercato elettrico le principali imprese hanno riconvertito le loro centrali ad olio combustibile con delle centrali a ciclo combinato che bruciano enormi quantità di gas. Più efficienti e più pulite. Ma che sfortunatamente consumano una risorsa che l’Italia produce in minima parte (circa il 10%) e che è difficilmente trasportabile. Siamo quindi legati ad una risorsa che viaggia costantemente in dei gasdotti che ci uniscono a paesi come Russia ed Algeria. E in più, punto secondo, abbiamo relativamente poco stoccaggio e, ancora peggio, lo utilizziamo male. A fronte di una scelta, quella di fare andare il paese a gas, abbiamo una disciplina che fino ad oggi ha previsto un mercato libero, ma con la rete controllata dal vecchio monopolista, l’Eni. E la rete di Snam Rete Gas comprende sia il trasporto, sia lo stoccaggio attraverso la controllata Stogit. Questa contraddizione insita nella regolamentazione ha fatto si che, per banali ragioni di business strategy, il vecchio monopolista non abbia effettuato nessun investimento per nuove capacità di stoccaggio. Più capacità di stoccaggio equivarrebbe infatti a più concorrenza sul mercato a valle. La questione ha motivi più complessi che andrebbero approfonditi, ma quest’assioma va più che bene. Ci troviamo così, a fronte di un consumo esagerato della risorsa, ad avere relativamente poca capacità di stoccaggio e a soffrire come stiamo vedendo, le temperature siberiane di questi giorni. Ma come dicevamo, non è finita qui. Non solo abbiamo poca capacità di stoccaggio, ma la utilizziamo male. Per ragioni di sicurezza di politica energetica, il 30% dei volumi di stoccaggio vengono tenuti bloccati negli stoccaggi, da apposito decreto ministeriale. Lo chiamiamo “stoccaggio strategico” e a questa riserva possiamo accedere solo in caso di emergenza dettata da un’interruzione improvvisa delle forniture (la famosa ipotesi che vede l’orso russo chiudere i rubinetti). Ad adottare questa disciplina però siamo solo noi e la Polonia. Gli altri paesi europei lasciano piena libertà alle imprese di utilizzare l’intera capacità di working gas disponibile, e sono proprio quest’ultime a dover essere in grado di rispettare i propri obblighi contrattuali.

Per il breve periodo possono quindi essere ritenute giustificate le richieste della Presidente Marcegaglia, ma allo stesso modo credo che sia venuto il momento quindi, non solo di cedere Snam per fare ripartire gli investimenti sulla rete, ma anche di rivedere una disciplina relativa alle attività di stoccaggio che, per come è strutturata, ha diverse grosse falle.

AAA strategia energetica nazionale cercasi

L’ultimo piano energetico nazionale risale al 1988. Veniamo quindi da una ventina di anni in cui la politica energetica nazionale ha brancolato nel buio, seguendo solo le iniziative europee, senza una precisa strategia di fondo. Il colossale fallimento del piano nucleare è solo l’ultimo, esemplare, tentativo guidato da logiche spot non comprese in una strategia di lungo respiro. La classica ciliegina su una torta ormai andata a male.

L’ex ministro Romani aveva annunciato un tavolo nazionale che riscrivesse gli assi prioritari della politica energetica italiana. Peccato che, in pieno stile con il suo governo, questa nuova politica energetica non abbia mai visto la luce.  Sia chiaro che nessuno ha bisogno di piani quinquennali, ma almeno avremmo bisogno di un governo che abbia le idee chiare su cosa serva fare.

Stiamo vivendo un periodo di drammatica crisi economica ma al cliente finale italiano l’energia continua a costare più che negli altri paesi.  I temi da mettere sul tavolo sarebbero quindi tanti, ma da questo minuscolo blog si vogliono sottoporre due nodi che hanno bisogno al più presto di misure integrate. Nell’ultimo decennio abbiamo avuto due fenomeni, uno iniziato dai primi 2000 e uno più recente. Il primo riguarda il boom del gas, soprattutto nella generazione elettrica. A partire dalla liberalizzazione del mercato si è messo in moto un significativo processo di ammodernamento nel nostro parco centrali, con investimenti che hanno puntato decisi verso dei modernissimi,efficientissimi ma costosissimi impianti termoelettrici a ciclo combinato. Risultato? una significativa overcapacity che, con la contrazione dei consumi dovuta alla crisi, mostra tutte le sue criticità con impianti sottoutilizzati, e funzionanti per sole 3000 ore l’anno. Abbiamo delle belle centrali, poco inquinanti, ma che spesso sono spente. E soprattutto si è venuto a creare un mix energetico sbilanciatissimo sul gas che, giusto per ricordarlo, ci obbliga a fare gran parte del baseload (il carico di base con cui si soddisfa quella parte di domanda costante) con una risorsa costosa che continuiamo ad importare in un contesto di mercato tutt’altro che competitivo. Il gas scambiato in Italia costa di più rispetto alle piattaforme europee? Vuol dire che la questione relativa alla separazione di snam e alla regolazione dell’accesso agli impianti di stoccaggio non può più essere rimandata. Servono quindi interventi normativi che ridiano competitività al mercato.  Tutti provvedimenti da inserire nel famoso capitolo delle “riforme a costo zero”.

Ciò che invece costa e costerà enormemente alle tasche dei consumatori italiani riguarda il secondo nodo da affrontare. Ci si riferisce al boom delle rinnovabili che però rischia di diventare una vera e propria bolla. Siamo tutti contenti che l’Italia veda crescere con impeto la propria produzione di energia rinnovabile, e che ciò generi sviluppo soprattutto per il sud ricco di sole e vento. Però forse non ci siamo resi conto che il regime di incentivi più alto d’Europa, leggi Conto energia, ha principalmente avuto l’effetto di trasferire ricchezza dai consumatori agli installatori di pannelli fotovoltaici. Non abbiamo infatti creato una filiera industriale ma solo un mercato drogato dove, a causa degli incentivi, il pannello costa di più che da altre parti!e con il contatore del GSE che corre già veloce verso i 12 GW installati, cifra che potrebbe raddioppiarsi nel giro di soli 3 anni, forse è il caso di porsi qualche domanda. Nonostante il disastro di marzo creato dalle dichiarazioni estemporanee di Romani, il numero di impianti allacciati alla rete negli ultimi 2 anni è stato elevatissimo e ciò costituirà un bel problema per la sostenibilità del sistema. Ciò significa che l’anno prossimo pagheremo una piccola finanziaria solo con la voce A3 della bolletta. Non c’è quindi più tempo da perdere, occorre rivedere i meccanismi incentivanti senza creare incertezza nel mercato, ma pensando ad una strategia integrata che allacci per esempio gli incentivi ad un paniere di prezzi relativi al costo di installazione degli impianti, solari, eolici e a biomassa. E occorre incentivare degli interventi sulle reti per interconnettere il più possibile il mercato, italiano ed europeo.

Come vede, caro ministro Passera, di lavoro da fare ce n’è. Tempo un po’ meno.

Le emozioni della finanza e il coraggio della politica

Ormai da mesi a questa parte siamo tutti concentrati sull’altalena dei mercati finanziari, sulle cronache di un Mr. Spread che sembra uno scalatore e su borse che un giorno cadono in picchiata e il giorno dopo magari rimbalzano. Linguaggi con strane metafore che ogni giorno ci raccontano i nostri passi verso un baratro da evitare. Tra le tante considerazioni da fare ci si dovrebbe chiedere come siamo arrivati fin qui? Come siamo potuti arrivare a dipendere dalle emozioni degli analisti finanziari? Come ha fatto la politica ad essere così debole ed influenzabile dalle borse?! Ogni giorno sulle piazze finanziarie si bruciano enormi quantità di denaro, sulla base di aspettative, sulla base della fiducia che l’entità mercato rivolge alle economie di paesi di milioni di persone che ogni giorno producono qualcosa di tangibile con il loro lavoro. Un mondo vero, reale, influenzato dalle scommesse e da quella correlazione “rischio-interesse” spiegata in qualunque corso di economia politica.

Ma i mercati finanziari condizionano le economie perché la politica è debole. L’euro è a rischio perché la politica europea è debole. Perché la politica ha già perso troppo tempo a guardare il proprio orticello di casa senza rendersi conto della perdita di potere dello stato nazionale. In questo momento l’unica via d’uscita da questo vicolo cieco sembra solo una netta inversione di tendenza. Non se ne esce se non con decisioni coraggiose che rafforzino le istituzioni internazionale e che restituiscano il primato alla politica. Per salvare l’euro serve un’Europa vera, servono decisioni strutturali per dare a quell’animale strano che è l’UE un vero governo economico e monetario. E servono Istituzioni internazionali capaci di prendere delle decisioni, che riescano a regolamentare in modo incisivo le transazioni finanziare, perché non può esistere nessuna Tobin tax senza la politica.

Il governo Monti ed il PD

Domani mattina Mario Monti presenterà il nuovo governo. Al di là del toto ministri e della sfilata dei ventuno (con relative dichiarazioni), appare chiaro alla stragrande maggioranza del Paese quanto sia necessario avere al più presto un governo credibile ed autorevole. Un governo capace di assumersi il carico di misure impopolari che non debbano misurarsi con la logica dei rispettivi elettorati. Negli ultimi giorni esponenti politici hanno perso il loro tempo attorno al dilemma “quanto deve durare”, ma non si capisce il motivo di un governo che debba timbrare il cartellino. Piuttosto abbiamo bisogno di un governo che porti a termine un progetto, non che ci traghetti a primavera. Occorre salvare l’Italia e non pensare in che mese si andrà a votare. Insomma, un vero contratto a progetto. Occorre rassicurare i mercati, offrire credibilità per i prossimi buoni del tesoro e, fondamentalmente, trovare tanti soldi magari correggendo un po’ di squilibri di questo Paese. I tecnici, specie se stimati ed apprezzati come il Prof. Monti, vengono chiamati ad intervenire laddove la politica fallisce. E una politica così scarsa non si era forse mai vista.
Anche perchè il mantra abusato “qual è l’alternativa” ha i suoi fondamenti. Il PD attuale è pronto a guidare il Paese?In pochi risponderebbero convintamente si. Bersani ha fatto una scelta responsabile, appoggiando senza riserve un governo tecnico, ma adesso il PD dovrà sfruttare questa parentesi per ricostruirsi attorno ad un tema, quello di un cambiamento riformista, che non può più attendere. Il nodo riguarda ovviamente che tipo di cambiamento si immagina, quale il modello politico di riferimento. Questi mesi saranno quindi fondamentali per trovare una sintesi anche rispetto a temi su cui un largo consenso appare oggi lontanissimo. Come?beh, con le primarie non c’è dubbio. Molto dipenderà dalla riforma elettorale, ma se il PD vuole mantenere almeno un barlume di vocazione maggioritaria non sarà rimandabile un confronto aperto e trasparente rispetto alle richieste, ad esempio, di Matteo Renzi o rispetto alle idee di Pietro Ichino. Troppe volte in questi giorni idee diverse sono state banalmente additate come diverse, estranee al partito, minoritarie e lontane dallo storico zoccolo elettorale. Eppure sarebbe più apprezzabile un confronto sulle proposte, sui temi che sono stati sollevati, soprattutto quando si rivolgono agli esclusi dall’attuale scenario politico. E solo un dibattito vero potrà portare il PD ad allargare la propria base elettorale e ad essere pronto per la prossima legislatura. Anche perchè, se adesso occorre pensare a salvare l’Italia, al prossimo giro di boa non si potrà più sbagliare. Ci sarà un paese da cambiare, sul serio.